L'esperienza di Reggio Emilia
Testimonianze di lotta popolare contro il
manicomio. Linea Antonucci contro linea
Jervis *

I

MARIA MUSI PARLA DEL SUO S. LAZZARO

Sono nata a Castelnuovo Monti e ho 51 anni. Ho passato tutta la vita in manicomio, tolto quest'ultimo anno, da quando cioè vivo in questo appartamento.

Mia madre si sposò dopo la mia nascita ed io fui ricoverata da piccolissima nell'Istituto De Santis, il reparto bambini del manicomio, perché a casa non mi volevano.

Quando avevo circa dodici anni mi mandarono a casa da mia madre per provare a farmi vivere con lei. Il mio patrigno però non mi voleva assolutamente e sia lui che mia madre mi scacciavano sempre. Mio patrigno mi dava sempre tante botte, col bastone, con le molle del focolare, col soffietto, con quello che gli capitava in mano: e poi invece di punire lui mi hanno fatto passare la vita in manicomio. Per mangiare chiedevo l'elemosina e spesso sono stata costretta dalla fame a raccogliere il cibo destinato ai porci. Per dormire dovevo andare in capanne, nei boschi.

Per trovare qualcuno che mi desse una mano dovevo cercare fra i vicini, alcuni dei quali si muovevano a pietà e mi aiutavano un po'.

Dopo qualche tempo di questa vita un medico che viveva a Castelnuovo Monti e lavorava all'ospedale civile di Castelnuovo Sotto si accorse di come vivevo, si interessò al mio caso e dopo qualche tempo mi fece ricoverare in manicomio, al San Lazzaro.

Hai capito: fino a 12 anni sono stata al De Santis poi ho passato 38 anni al San Lazzaro. Cioè ho passato tutta la mia vita in manicomio.

Al De Santis se qualcuno diceva una parola che non andava bene ci facevano le punture di bromuro e ci chiudevano in cella senza mangiare per tre giorni. Una volta che dissi una parola sporca le suore mi tennero quindici giorni legata. Questo era il modo di condurre il reparto, questo era la normalità, al De Santis.

Al San Lazzaro non mi davano medicine--in genere allora medicine ne davano poche--e ci tenevano sempre chiuse in reparto, ma, almeno in quel reparto in cui ero (e in cui sono stata quasi sempre) non c'erano persone legate. Quelle che si comportavano male le mandavano in un altro reparto, il Morel agitate. Là ci mandavano quelle che facevano a botte o, specialmente, se una cercava di picchiare un'infermiera.

Al Morel ho visto con i miei occhi le ricoverate legate a cui chiudevano il naso per farle mangiare. C'era gente a cui tenevano il corpetto per mesi e mesi.

Una volta portarono una mia amica, una del mio reparto, al Morel Agitate. Mi ordinarono di aiutare e di portare i suoi vestiti. Al Morel la chiusero in cella legata al letto con le fasce alle mani, ai piedi e attorno al petto. La tenevano chiusa da sola perché quella per difendersi mordeva. La tennero al Morel per mesi, in queste condizioni: non ricordo neppure per quanto.

Io ogni tanto andavo sia per trovare questa donna che un'altra mia amica, una che era stata la serva della Cianciulli--e che è ancora là--e quando le andavo a trovare erano sempre legate come tantissime altre.

Voglio aggiungere un'altra cosa perché si capisca com'è la vita nel manicomio: finché lavoravo le infermiere erano buone ma quando non lavoravo mi trattavano come una bestia. La mattina, quando mi alzavo, spesso mi sentivo svenire e dovevo restare a letto. E quelle mattine che non me la sentivo di lavorare le infermiere mi offendevano. Magari non picchiavano ma offendevano e le offese fanno più male delle botte. Mi facevano lavorare per forza ma pagare non è che mi pagassero: mi sfruttavano e basta.

Ora ti voglio cantare due canzoni che ho inventato io sulla vita nel manicomio. Quando ero là dentro le cantavo sempre: e quando le cantavo le infermiere mi picchiavano dicendo che non era vero nulla quello che cantavo. E invece è tutto vero, ogni cosa che racconto è vera. Ho sofferto moltissimo, io, e quello che racconto è la storia di quello che ho passato e di quello che ho visto. Come lo racconto a te sono pronta a dirlo a chiunque.

Ma la vita del manicomio
è una vita dura dura
che ci porta alla sepoltura
e rovina la gioventù.

Maledette maledette quelle fasce maledetti quei corpetti maledette quelle fasce
che rovinan la gioventù

Ma la vita del manicomio
è una vita dura dura
che ci porta alla sepoltura
e rovina la gioventù

Sei la più bella di Napoli stringimi al cuore e poi baciami quando ti dico lasciami stringimi ancora di più

Sei la più bella stasera
vestita da infermiera
e con le chiavi in mano
sembri una prigioniera

mi fai provare la scossa
dagli occhi da assassina
la bella romanina
lasciatela passar

Ora il San Lazzaro fa schifo, è tutto cambiato. Ora è peggio di prima perché danno tante medicine che fanno dormire. Tanti anni fa era più vivace, ci portavano addirittura a fare delle gite--parlo del 1945 o giù di lì--e ora invece non fanno più niente. Adesso mettono tutti quieti con le medicine e ora di vivacità non ce n'è più.

Prima nei rapporti fra ricoverati e infermieri era questione di botta e risposta: da parte degli infermieri era una cattiveria aperta. Ora invece danno le punture e tutto finisce.

Prima fra noi c'erano amicizie, si stava insieme, si passeggiava insieme, si chiacchierava: ora non c'è più niente. Ora son tutti pieni di medicine e non si parlano più.

II

LUCIANO MASINI (DI FORNOLO DI RAMISETO)

La montagna ha delle tradizioni di lotta molto antiche. Battaglie continue per sopravvivere prima del fascismo, durante il fascismo, durante la Resistenza e dopo: sempre la montagna ha avuto centinaia di morti durante la guerra partigiana, tu lo sai. Verso il 1950 o 1951- non ricordo con esattezza l'anno -, ci fu lo sciopero per la strada.

Allora la strada non arrivava mica qua, si fermava a Ramiseto. Se uno si ammalava ci volevano ore e ore per far venire il medico, quando veniva.

Il nostro fu uno sciopero alla rovescia: scendemmo con picconi mazze e badili a protestare e a dire che ce la saremmo fatta da noi, la strada. Poi vennero i carabinieri e ci arrestarono, in molti. In tribunale, il pretore, voleva sapere chi era stato il promotore dello sciopero, capisci, quale di noi. Gli rispose l'avvocato che ci difendeva, che stava dalla nostra parte: il promotore è stato la strada, questa strada che non viene mai fatta.

Poi, dopo molto tempo, la strada fu fatta e per noi fu una gran gioia. Venne apposta il senatore a dirci che il piano era stato approvato e che era stato deliberato lo stanziamento. Io chiamai tutti i cittadini, la sera li riunii e insieme glielo dicemmo, il senatore e io. Parlai prima io e mi veniva da piangere, sono un tipo che si emoziona. Poi, quando ebbi finito, si alzò a parlare il senatore e disse, rivolto a me: "Ricordi, Masini, che la strada è buona sì per venire, però è buona anche per andar via". Come ci rimasi male! Lì per lì non capii e ci rimasi male, perdio, che il senatore avesse voluto sciupare con delle parole così amare un'occasione così felice. Ma dopo dovetti ricordarle tante volte, le sue parole. Aveva ragione. E andata via tanta gente per questa strada!

Così, ti stavo dicendo, in montagna le tradizioni di lotta sono antiche. E quando capimmo che la malattia mentale non è una cosa di natura che non viene come le malattie ma è la tristezza delle condizioni che la fa venire decidemmo subito di muoverci. Qua, lo vedi da te, l'ambiente è triste per i vecchi e per quelli che hanno qualche debolezza. I vecchi, la sera: su e giù per pochi metri di strada, da qui alla curva e poi indietro, niente da fare, che possono fare, la sera? Vengono qua, si siedono, se hanno qualche soldo bevono, a volte non si ritrovano neppure abbastanza per fare una partita a carte. I giovani ora possono andare qualche volta verso i posti dove c'è da fare, a Castelnuovo o addirittura a Reggio. I vecchi no, sono nati qua e qua restano.

Prima, anni fa, qui c'erano delle tradizioni, si cantava si ballava: adesso non c'è più nulla quassù, non ci sono più le cose che c'erano prima e non abbiamo avuto niente in cambio. E quelli più sensibili, quelli che capiscono di più non sopportano, soffrono più degli altri: e sono quelli che vengono mandati al San Lazzaro.

Noi l'ambiente lo si conosce, le condizioni in cui vive la gente le conosciamo. Prendi una qualsiasi di queste famiglie: i giovani si sposano e vanno a vivere in pianura: i vecchi restano soli, la vita è sempre uguale, da fare non ce n'è, a quelli gli prende la tristezza. E naturale.

Di problemi ce n'abbiamo tanti. Ma laggiù di noi non se ne preoccupano, mandano tecnici che non capiscono. Ti faccio un esempio: viene uno a studiare una strada: vede un torrente con molta acqua e decide che là ci vuole un ponte, poi ne vede uno con poca acqua e decide che là basta un tombino. E così viene fatto. Ma a noi, che la montagna la conosciamo, non chiedono niente: e magari dove c'è il ponte bastava un tombino perché di acqua non ne viene mai più di tanta, e dove c'è il tombino ci voleva il ponte perché è lì che quando piove forte si scarica tutta l'acqua.

Ma tu volevi sapere del movimento contro il S. Lazzaro52. Venivano quelli del C.I.M. di Reggio e ci furono riunioni, parecchie. Bombardi, il sindaco di Ramiseto da cui noi dipendiamo, dette un grossissimo contributo: fu lui a mettere su tutte le riunioni. Venivano da Reggio una bionda, piccolina (Eugenia Omodei-Zorini): quella era bravissima. Attaccava, spiegava, discuteva. Spiegava, e tutto era subito chiaro. Si discuteva dei ricoverati e noi si pensava: domani potrei esserci io, laggiù al S. Lazzaro.

Così abbiamo capito quale forma di repressione rappresentava il S. Lazzaro: o riesci a vivere qua o il tuo posto è là. Perciò capimmo che la lotta doveva svolgersi su due fronti: contro il S. Lazzaro, da una parte, e quassù, perché la montagna cambiasse e diventasse un posto dove si può vivere. E perciò che le "calate" furono sentite subito, e profondamente, come forme di protesta: si pretendeva per lo meno che i ricoverati fossero trattati meglio.

La partenza della prima `'calata" fu unitaria: parteciparono tutti i partiti. Ma già arrivati a Reggio cominciarono i primi tentativi di rottura. Un consigliere provinciale socialdemocratico, Coselli, che in qualche modo aveva saputo della nostra intenzione di "calare" e aspettava davanti al S. Lazzaro, chiese se erano venuti a farsi ricoverare (io a quelle "calate" non andai, partecipai soltanto all'organizzazione). E dire che lui si diceva amico della montagna...

Quando tornarono, portarono racconti disastrosi, terribili: bambini legati, sporcizia, violenze di ogni genere. Era per questo che si era fatta la lotta partigiana? Non era per questo! Quelli del S. Lazzaro volevano soltanto far credere quello che volevano loro e fu necessario obbligare la gente con la forza ad aprire certe porte. Al S. Lazzaro, l'unica mentalità era quella inumana dell'emarginazione e della segregazione: altro non volevano.

Dopo la prima riunione ci furono altre riunioni e altra gente di qua scese insieme con la popolazione di altri paesi, non ricordo quante volte.

Dopo le "calate" il C.I.M. di Reggio cominciò a cambiare. All'inizio il C.I.M. aveva rappresentato il primo passo alla contestazione contro la malattia mentale: e la gente aveva fiducia. Si aspettava molto perché quello che dicevano era veramente e profondamente rivoluzionario. Poi, dopo qualche mese dalle "calate", le cose sono cambiate. Ora ci portano le pillole e se portano le pillole non risolvono nulla. Capisci: se si fa una strada questa resta, questa dopo c'è...; se invece si dà una pillola, dopo non c'è più niente...

Ci vorrebbe un legame delle forze politiche, ma serio. La riforma sanitaria dovrebbe essere fatta non da chi se ne intende ma da chi non se ne intende: non da tecnici, ma da chi deve usare la medicina e sa a cosa serve. Per esempio il medico condotto, in montagna ora è indispensabile: è uno che sta qua, che può sapere tutto delle famiglie e servire da intermediario per risolvere veramente i problemi, singoli e della comunità, cioè i problemi della salute e quelli detti mentali. Ci sono tante cose da cambiare. E anche il C.I.M. dovrebbe essere un organismo che aiuti a trasformare l'ambiente.

All'inizio, in collegamento col C.I.M., noi della montagna avevamo chiesto tante cose e si pensava piano piano di arrivare a risolvere alcuni dei grossi problemi che ci impediscono di sopravvivere. Ma di queste cose, solo poche sono state attuate. Per esempio noi qui ora abbiamo una stalla sociale e questa ha rappresentato una risposta positiva- ma per quanto riguarda gli altri obiettivi abbiamo avuto ben poco. Si parlava di turismo: qualcosa a Succiso è stato fatto, ma poco. Si chiedevano industrie di legname, ma non se ne è fatto di niente, anzi ora si parla di aprire fabbriche in pianura. Si voleva un allevamento di pecore modernizzato, invece niente.

Evidentemente si è trattato di scelte politiche. Accordi, senz'altro importanti in linea generali nei quali però noi siamo stati l'oggetto di scambio: la montagna è stata sacrificata a interessi superiori. Quel che è certo è che noi eravamo abbandonati prima e ora non è cambiato gran che, siamo rimasti sempre abbandonati.

A Febio, dove al massimo c'è neve per tre giorni l'anno, hanno fatto tante sciovie, mentre qui, che di neve ce n'è tanta, sciovie non ce ne sono. La strada che passa di qua e che potrebbe unire l'Emilia con la Toscana abbrevierebbe il tragitto di un'ora almeno, ma non è mai stata terminata per non tagliare fuori zone più potenti. E le nostre genti quando emigrano - anche stagionalmente - vanno in Toscana o in Liguria, a La Spezia, a Carrara, a Massa, e non in pianura, a Reggio: la montagna è sempre stata tagliata fuori da Reggio, e lo è ancora. Pensa che non c'è mai stato un consigliere provinciale che venisse dalla zona di Ramiseto.

All'epoca delle "calate" c'erano stati anche collegamenti fra le fabbriche della pianura e la montagna. A Casina vennero gli operai della Bertolini e altri che non ricordo. Ma tutto finì quando si spense la carica combattiva del C.I.M. dopo qualche mese dalle "calate", e diventò più forte quella parte politica che fin dall'inizio aveva fatto di tutto per frenare e reprimere il movimento della montagna. Quando poi c'è stato l'accostamento fra Dc e Pci, è avvenuto un rilassamento che si è risolto in un barato, che ha lasciato la montagna nei guai in cui si è sempre trovata.

Lo capisci che se non si risolvono i problemi della montagna per molti di noi è il ricovero, al S. Lazzaro o negli ospizi là in pianura? E così. Non c'è scampo.

III

MARISA BITTASI (INFERMIERA DEL C.I.M. DI REGGIO
EMILIA)

Ho cominciato a lavorare al C.I.M. di Reggio Emilia nel 1971, poco dopo le famose calate.

Provengo da famiglia contadina e molto giovane dovetti andare a lavorare in fabbrica. Là cominciai a fare attività politica e vita di partito, ma si trattava più che altro di attivismo: non ho mai accettato di fare la funzionaria di partito pagata, a tempo pieno.

Mi avvicinai al lavoro del C.I.M. in quanto sentivo che era importante intrecciare il movimento politico con quello del lavoro cioè volevo lavorare le mie otto ore conciliando le due cose. Così andai al C.I.M. dove mi assunsero con gran facilità: anzi, mentre per regola avrei dovuto fare una quindicina di giorni di prova, fui assunta definitivamente dopo il terzo o quarto giorno. Questo perché lì il sistema di assunzione era, come dire, un po' clientelare: Jervis proponeva l'assunzione (lui faceva il bello e il cattivo tempo) e dopo veniva una valutazione, abbastanza generica e formale, da parte di una commissione provinciale in base alla quale avveniva l'assunzione ufficiale. Nel mio caso, appunto, tutta questa trafila durò meno di quattro giorni.

Appena entrata, mi resi conto che il Centro era diviso da impostazioni di lavoro diverse - che in quella situazione voleva dire tendenze politiche diverse - e più esattamente in due linee principali: quella di cui facevano parte la maggioranza dei medici e qualche infermiere e quella di base di cui facevano parte il gruppo più forte degli infermieri e soltanto uno o due medici.

Io mi trovai d'accordo con questa seconda linea che era la linea impostata da Antonucci.

In quegli anni, la nostra impostazione risentiva anche del movimento generale, cioè noi vivevamo ancora i riflessi del '68 e '69. In quegli anni, tutta una certa stampa di sinistra pubblicava molto sulla divisione dei ruoli e sulla distruzione dell'uomo operata da questa società. In questa direzione andava anche il discorso di Antonucci.

Si diceva che l'operatore di base - figura molto nuova nell'ambito psichiatrico - era un tipo di persona che, mettendo a disposizione la propria personalità nel suo complesso, nella sua storia, con le sue indecisioni verbali, con la sua cultura non impregnata di conoscenze psichiatriche, poteva instaurare rapporti diversi da quelli che esistono fra psichiatri e pazienti, e cioè poteva instaurare un rapporto di partecipazione.

Ricordo di Antonucci quando diceva che il nostro lavoro poteva avere dei momenti criticabili, ma aggiungeva: so soltanto che un proletario (lui usava sempre questi termini, politici), un proletario che non partecipa è comunque un proletario messo da parte, è uno che non può avere in mano le redini della sua storia. Io ricordo bene questa e altre frasi sulle quali poggiavano le nostre posizioni: erano il contenuto di fondo di quegli anni.

Si diceva che questo operatore psichiatrico, provenendo da classi operaie o contadine e portando con sé valori culturali e contenuti comuni a quelli delle persone che avevano bisogno di aiuto, non creava il rapporto di dipendenza che normalmente si instaura fra tecnico, detentore del potere, e paziente. Il rapporto, cioè, restava alla pari.

Invece gli psichiatri, i manicomi gestiscono il rapporto con le persone con tutta una serie di momenti violenti, violentatori: e noi questo lo vedevamo di continuo. Ti posso dire io quante persone ci trovavamo davanti distrutte demolite, persone che oltre ad avere una difficile storia di classe erano poi state in manicomio. Ce le trovavamo di fronte imbottite di farmaci. E allora noi dovevamo fare in modo che esse ci sentissero vicini come classe, come individui che fanno parte della stessa classe e che quindi capiscono cosa vuol dire essere messi da parte, non aver mai potuto dire né sì né no, cosa vuol dire essere persone che non hanno mai deciso della loro stessa vita.

Ce le trovavamo lì, schiere di donne mute che erano sempre state mute e che non avevano mai parlato. E così, di momento in momento, affrontavamo un tipo di cultura che noi stessi non conoscevamo e non conosciamo bene. E in quei momenti lì prendevamo coraggio, sentendo che in un modo o in un altro questa cultura comune c'era, e ci ponevamo su un terreno comune: questo significava per noi essere operatori di base.

Ci muovevamo in questo senso anche sapendo che questa cultura era proprio quella che la psichiatria tendeva a smontare dimostrando che non era cultura. Anche nel Centro c'era chi definiva le nostre posizioni come "Psichiatria della portinaia": per quei personaggi che tutto sommato tendevano a gestire il Centro, noi eravamo i buoni, i bravi, quelli che provenivano dalla classe operaia, che potevano fare un po' quello che volevano, tanto grossi guai non ne potevano combinare perché lavoravano su persone appartenenti al manicomio.

Spesso si arrivava a discussioni feroci sul concetto di malattia mentale. Ai medici che erano contro di noi, noi dicevamo che bastava che una persona si trovasse di fronte ad un medico di cui aveva soggezione per assumere per atteggiamenti che per quel medico erano abnormali: si ingarbugliasse, non riuscisse a tirare fuori una parola o si eccitasse. Noi contestavamo in questo modo le posizioni degli psichiatri del C.I.M., dei "santoni".

La nostra linea era questa e ne eravamo convinti: linea che potrei definire "linea Antonucci", in quanto è stato lui che ha incoraggiato noi infermieri dicendo che proprio nel nostro modo di operare, di muoverci nei rapporti personali, stava la validità del nostro lavoro.

Con lui facevamo lunghe discussioni (soprattutto Luciano Bertolini e Giuseppe Garuti, ma un po' tutti noi), e lui ci incoraggiava a trasformare l'odio di classe in lotta politica. Diceva che all'interno della cultura borghese non ci sono momenti che possano veramente rinnovarla e paragonava la cultura dei lavoratori, non espressa letterariamente, alla cultura dei borghesi che, per quanto bene espressa, è sempre tutta diretta verso se stessa. Faceva spesso riferimento al concetto dell'intellettuale nella sua torre d'avorio, distaccato dalla gente.

Ecco dunque come in quegli anni, vivendo tra tutte queste difficoltà, fra queste linee contrastanti ci siamo formati una cultura. Noi operatori, da una parte, ci sentivamo incoraggiati a diventare autonomi; dall'altra, spinti a resistere contro questo nostro impulso. Da queste lotte ci siamo formati una coscienza che prima non avevamo: molto ci ha aiutato il capire i meccanismi che portano le persone a quello che viene definito sintomo psichiatrico. Siamo certamente riusciti a farci una coscienza politica nuova, comprendendo quali erano i nodi, i conflitti che portano una persona a distaccarsi dal mondo, ad emarginarsi, a non volerne più sapere di nessuno.

Noi rifiutavamo, e ancora rifiutiamo, la diagnosi: quello che cerchiamo di capire è la storia delle persone. Fare la diagnosi significa schematizzare tutti i rapporti, significa inquadrare le persone. Il rifiuto della diagnosi (che quei soliti "santoni" di cui parlavo prima definivano rifiuto moralistico) è invece molto importante in quanto non ha un valore, come dire, letterario, ma un valore politico: la diagnosi impedisce di tener conto della persona nella sua totalità con tutta la sua storia, ed è da questa storia che bisogna sforzarsi di cominciare.

I medici del Centro in parte erano con noi, come dicevo, in parte contro di noi. Alcuni, poi, cercavano più che altro di tenere a freno la tendenza a difendere il ruolo di medici, a fare diagnosi, a dare farmaci. Infatti, col tempo, la differenza fra le due linee è diventata anche più chiara e questo è dimostrato dal fatto che noi operatori non siamo diventati brutte copie dei medici, come succede generalmente all'interno delle istituzioni. Noi siamo rimasti figure a parte, nella tradizione iniziata al C.I.M. di Reggio, mentre i medici sono ormai tornati ad essere quasi tutti medici. C'è chi si è iscritto di nuovo all'Università per procurarsi nuove specializzazioni, chi si è dato a fare l'analisi privatamente o si occupa di terapia familiare. Quasi tutti insomma si sono cercati il loro rifugio: e questo rappresenta una grossa involuzione rispetto a quello che era lo spirito del C.I.M. all'inizio, spirito a cui aveva in parte contribuito Jervis stesso nei primi tempi.

Jervis partiva da Ernesto De Martino e dava molto peso allo studio delle superstizioni, del pianto e dei riti popolari. Con noi tentava sempre di entrare in rapporto per capire cosa dovesse essere l'operatore di base e molto spesso ci spingeva anche alla critica e alla contestazione. Questo agli inizi: ad un certo punto però non ci ha creduto più e si è ritirato in se stesso abbandonando un po' il campo (a questo proposito, è interessantissima una dispensa di Jervis su i deliri di gruppo. In un primo tempo aveva affermato che all'interno della società esistono dei gruppi, organizzati, che esprimono idee diverse e che perciò vengono emarginati. Più tardi fece circolare quella dispensa in cui si rimangiava tutto, chiamando queste posizioni deliri di gruppo).

Questo avveniva anche perché nel frattempo il movimento generale stava rientrando, da parte delle sinistre veniva la riproposta del lavoro istituzionale ("la lunga marcia attraverso le istituzioni") e quindi rientrava anche quella che era stata l'esperienza sul territorio.

Così anche nel Centro, se da una parte la base, legata a quei contenuti di classe di cui parlavo prima, continuava nella sua linea, dall'altra invece cominciavano grosse battaglie per il potere. Il Centro diventò una palestra in cui vari personaggi si allenavano in attesa di poter andare altrove a coltivare un proprio orticello e in queste lotte cercavano di attirarsi le alleanze di noi infermieri con ogni mezzo possibile: alcuni di noi, purtroppo, si sono lasciati comprare. Ci sono infermieri e infermieri: alcuni sono infermieri da cortile, altri invece riescono a rimanere se stessi.

Ma per tornare a Jervis, io sono convinta di una cosa, anche se la dico più istintivamente che per conoscenza di fatti, e cioè che in quel periodo - mi riferisco al '72 o giù di lì - ci sia stata un'azione del Pci che ha imposto a Jervis di fermare le cose e di tornare indietro rispetto alle "calate", alle quali lui, in ogni modo, era stato contrario.

Io non ho dati precisi però ricordo come subito dopo le "calate" il discorso si sia irrigidito. All'inizio le "calate" erano state esaltate anche da parte della federazione comunista come azioni politiche importanti. Poi, dopo una quindicina di giorni, mi risulta che ci fu un'aspra discussione fra un consigliere del S. Lazzaro (che era considerato l'ala destra del Pci, colui che non aveva voluto il C.I.M. e che voleva mantenere in piedi il S. Lazzaro facendo il discorso meccanicistico che, finché la società è organizzata come lo è ora, i manicomi sono indispensabili) e un dirigente della federazione. Dopo di ché le cose cominciarono a cambiare.

Si cominciò a dire che le "calate" erano state fatte contro la volontà della direzione (e questo in realtà era vero) e in modo clandestino. Ci fu una divisione netta fra quelli che continuavano a sostenere la non esistenza della malattia mentale - il discorso di Antonucci - e quelli che, come Jervis, riproponevano la tecnicizzazione degli interventi.

Noi che sostenevamo Antonucci venivamo accusati di esserci fatti trascinare perché legati da amicizia personale e non perché convinti. Invece bisogna dire che Antonucci per me è una figura molto bella nel senso che lui si dà tutto per quello in cui crede (e questo noi lo sentivamo). Non so se lui sia ancora così, ma era una di quelle persone che coinvolgono la gente; e in effetti se lui è stato buttato fuori è stato perché aveva dietro di sé molti infermieri, perché aveva creato un movimento politico che faceva paura. Noi vedevamo in Antonucci un leader politico: aveva valori vicino ai nostri, partecipava della nostra cultura e ci faceva avvertire tutto il valore di questa stessa cultura.

Nel Centro si cominciò a dire che non si doveva fare il discorso in termini così frontali, che bisognava tentare di smussare la contrapposizione fra S. Lazzaro e C.I.M. La federazione comunista si mise dalla parte di questa linea, cominciando a criticare sottilmente ma in modo continuo le nostre posizioni, definendole "viscerali", antistituzionali e di rottura fra lavoratori.

A quell'epoca io facevo un corso al S. Lazzaro e ricordo che circolava il discorso che "interno" e "esterno" devono andare d'accordo: questa era la linea portata avanti dal Pci e dal Psi. Si parlava di politica di settore (i meno convinti si mandavano a vedere le esperienze francesi: io sono stata una di quelli mandati) e quindi il rapporto fra 'interno" e "esterno" dovette essere ridimensionato: era necessario tagliare quella contrapposizione che era, dopotutto, contrapposizione di contenuti, anzi di contenuti e di interessi.

In questa contrapposizione entravano naturalmente anche i sindacati, pur se sul problema specifico del rapporto fra C.I.M. e S. Lazzaro non so se siano mai state espresse posizioni precise.

Il fatto è che, all'interno dei sindacati si scontravano varie linee. Ma posso dire che se nel S. Lazzaro c'era qualcuno che appoggiava l'esperienza esterna perché più preparato--magari era qualcuno che proveniva dall'F.L.M. e che aveva già approfondito il rapporto fra il movimento operaio e istituzioni--e che era d'accordo con il discorso del C.I.M., questi veniva immediatamente demolito: e si lasciava che all'interno del S. Lazzaro emergesse in modo esclusivo l'ala "socialdemocratica".

Ecco, io credo che se c'è stato un limite a livello politico - e mi dispiace dirlo -, questo limite è stato nel nostro partito, nel Pci, che in quegli anni non ha voluto scontrarsi realmente e fino in fondo su alcuni contenuti e sul problema delle istituzioni. Non si è voluto toccare questa grande istituzione, il S. Lazzaro, con tutta la sua logica interna di interessi.

In quegli anni veniva fuori la linea che il sindacato rappresentava la cinghia di trasmissione della volontà del partito. E anche alcuni personaggi che prima erano stati "quasi-rivoluzionari", dovettero fare marcia indietro e smussare gli angoli. Si trattava di persone che erano state d'accordo con il lavoro del C.I.M. e quindi anche con tutto il lavoro che aveva portato alle "calate", persone che non si muovevano tanto su quel famoso filone del pansindacalismo e della lotta per le dieci lire ma più su questioni di contenuto. Solo che prima o poi tornava sempre fuori qualcuno della vecchia guardia che voleva che tutto marciasse come aveva sempre marciato, senza troppa confusione.

Questo clima, sia all'interno del C.I.M. che all'esterno e poi la partenza di Antonucci, crearono un senso di sfiducia anche fra gli operatori più convinti. Finimmo per capire che le assemblee del martedì--in cui, al di là delle chiacchiere, non si decideva niente perché tutto era già stato deciso in partenza, dall'alto--erano situazioni false e che molte battaglie si risolvevano in lotte di palazzo.

E un po' per volta ciascuno di noi ha cercato di crearsi i propri spazi operativi formando gruppi separati con operatori con cui andava d'accordo. Nel C.I.M. ci si rimangiava il discorso degli interventi in fabbrica spingendo invece ad una maggior tecnicizzazione: noi ci ritirammo in spazi più ristretti, ma che consentivano ancora interventi secondo la linea in cui credevamo.

IV

GIUSEPPE GARUTI (INFERMIERE DEL C.I.M. DI REGGIO
EMILIA)

All'inizio fui mandato da Jervis a Gorizia per vedere come era stato impostato il lavoro in quel manicomio. Lì notai un rapporto diverso fra medici e infermieri, meno gerarchico di quanto non fosse all'ospedale civile, lì pure mi incontrai per la prima volta con ricoverati di manicomio.

Il lavoro al C.I.M. di Reggio, quando tornai, era già iniziato. Tutte le mattine ci riunivamo e si discuteva il lavoro da farsi durante la giornata. Le decisioni venivano prese in comune e questo atteggiamento mi colpì subito per l'apparente mancanza di rapporti gerarchici.

Jervis parlava con le persone e poi faceva la diagnosi dopo aver chiesto il nostro parere. La diagnosi era il risultato della sua elaborazione.
Si andava e si parlava con le persone e, fatte le diagnosi, ciascuno di noi seguiva un suo compito preciso: la psicologa come psicologa, il medico come medico, l'assistente sociale come assistente sociale, e io come infermiere. I miei compiti variavano dal fare iniezioni di psicofarmaci ordinati dai medici a fare compagnia ai pazienti.

Nel dicembre del 1969 arrivò Antonucci e io fui affiancato a lui per andare in montagna ad esaminare situazioni di persone che già ottenevano - o avevano fatto richiesta - di sussidi dalla Provincia. Quasi tutti questi erano ex ricoverati del S. Lazzaro. Andando a visitare queste persone e analizzando con Antonucci le condizioni della loro vita, cominciai a capire quanto il loro problema non avesse carattere psichiatrico, ma soltanto sociale.

Denunciammo queste e altre situazioni a sindaci e a politici responsabili. Andavamo dai sindaci dei paesi della montagna a raccontare la vera storia delle persone di cui ci occupavamo. Spesso i sindaci rispondevano molto positivamente alle nostre sollecitazioni, sia cercando soluzioni pratiche, quando era possibile, sia discutendo con noi i gravi problemi della montagna che a volte rendevano difficile un aiuto veramente valido e una risposta sufficiente. In alcuni casi i sindaci riuscivano a trovare un posto di lavoro che ridava alle persone la possibilità di farsi una vita autonoma. In altri casi i sindaci stessi erano costretti a rispondere lamentando le condizioni generali della montagna, cioè miseria, disoccupazione, mancanza di case e in genere di strutture.

Venne fuori anche il problema dell'emigrazione: casalinghe che andavano a Milano o a Genova a fare le donne di servizio, e uomini a fare i muratori. Molti, dopo queste esperienze, tornavano distrutti e venivano direttamente ricoverati. Quelli che rimanevano, trovavano occupazioni stagionali, estive, e d'inverno spesso si ricoveravano al S. Lazzaro per non soffrire la fame e il freddo.

Per alcune di queste visite alle persone in pericolo di ricovero, Antonucci chiedeva la presenza di amministratori della Provincia di Reggio perché si rendessero conto della drammaticità dei problemi. Voleva che questi amministratori "vedessero" quale era la reale condizione delle persone che i medici avevano etichettato come malate di mente.

C'era una donna che era stata considerata matta, e ricoverata perché tirava sassi al passaggio della corriera: il sindaco, da noi avvicinato, riunì i paesani per discutere questo comportamento. Dalla discussione emerse chiaramente che la donna tirava i sassi alla corriera perché la corriera rappresentava per lei la partenza di persone importanti per la sua vita: il marito, i figli, la sorella. Una volta capiti i sentimenti di questa donna, fu facile per gli altri sentire i suoi problemi come i problemi di tutti.

Dalle discussioni si passò alle assemblee popolari. La prima grossa assemblea si tenne a Ramiseto e fu organizzata da un gruppo di cittadini con l'aiuto dell'allora vice sindaco, Bombardi. Alla fine dell'assemblea, a cui parteciparono molto attivamente tutti i presenti, fu deciso di costituire il Comitato popolare di Ramiseto, che aveva il compito di organizzare riunioni nelle frazioni del Comune per allargare la discussione a tutti i cittadini. Da queste riunioni nacquero le '`calate" al S. Lazzaro.

Le ripercussioni del lavoro in montagna e delle calate non tardavano a farsi sentire all'interno del C.I.M. di Reggio Emilia. Gli operatori si divisero in due posizioni: una appoggiava il lavoro fatto in montagna dall'équipe di Antonucci e si identificava nelle posizioni politiche dei "montanari", degli operai, e in genere delle forze di base; l'altra, che faceva capo a Jervis, rimaneva su posizioni psichiatriche, proponendo ancora diagnosi e cure.

Questo portò presto ad una serie di scontri frontali che riflettevano anche posizioni contrastanti a livello politico e amministrativo. Alcuni amministratori appoggiarono la linea della montagna, altri prendevano posizioni per un recupero dell'istituzione manicomiale e in genere della psichiatria.

Le nostre posizioni--che in un primo momento erano state accettate, pur senza convinzione, da Jervis (che infatti non partecipò mai a nessuna visita al S. Lazzaro)--vennero definite fallimentari da Jervis stesso in varie assemblee. Dopo circa un anno dalle "calate", Antonucci fu licenziato e agli operatori che rimanevano fu ordinato di seguire una linea di collaborazione con il S. Lazzaro.

Contro la linea di normalizzazione, buona parte dei lavoratori di base ha cercato di impostare un lavoro di quartiere con carattere politico-sociale secondo la linea non psichiatrica in continuità con il lavoro cominciato in montagna all'epoca delle "calate".

V

LUCIANO BERTOLINI (INFERMIERE DEL C.I.M. DI REGGIO EMILIA)

Ho passato quasi quattro anni all'ospedale civile e ne ho viste di tutti i colori: da gente che veniva trattata male a gente che veniva - in modo più o meno coperto - ammazzata. Dopo tutto quel tempo avevo deciso di andarmene.

Entrai a lavorare al C.I.M.

Quando arrivai, Garuti mi fece il quadro della situazione. Garuti e io facemmo subito gruppo con Antonucci, sia nel senso che cercavamo di lavorare il più possibile insieme e sia nel senso che ci trovavamo sempre la sera a discutere.

Noi avevamo molte perplessità e cercavamo di chiarircele, di capire il vero perché di certe cose, di andare fino in fondo. Mi ricordo una volta che parlai di una persona che era stata in campo di prigionia tedesco e che ne era uscito piena di rancore ma che si era reinserito e che ora viveva regolarmente, e paragonai questa persona ad un suo compagno di prigionia, della stessa prigione, che aveva sofferto quanto lui ma che dopo non si era mai ripreso, aveva passato momenti di grave disperazione ed era stato dichiarato pazzo e ricoverato in manicomio. Con Antonucci si cercò allora di ricostruire la storia di questi due uomini. E lui mi aiutò a capire come l'uno aveva trovato un ambiente sociale in grado di capire quello che aveva passato e di aiutarlo a non dimenticare ma a vivere; all'altro invece era stato sempre chiesto di dimenticare, senza però condividere assolutamente la sua reale sofferenza, e perciò si era trovato da solo, solo e disperato.

Ascoltavamo le persone, senza fare diagnosi: soltanto ascoltando veramente si capiscono le persone, e così si possono discutere con loro i loro problemi.

Questo modo di pensare è molto diverso da quello di tanti che apparentemente dicono che la malattia mentale non c'è: per esempio, Jervis diceva che esistono persone con problemi, ma poi ci proponeva, quand'era qua, la terapia per l'elettroshock.





* Tutte le testimonianze qui pubblicate sono state raccolte da Piero Colacicchi.