In fondo, la scienza...
F. Nietzsche, Frammento 11(248) da
La gaia scienza e Frammenti postumi

In fondo, la scienza mira a stabilire in che modo l'uomo - NON l'individuo, - sente rispetto a tutte le cose e a se stesso, dunque a espellere l'idiosincrasia di individui e di gruppi, e a fissare il rapporto persistente.

Non la verità bensì l'uomo è conosciuto, e ciò entro tutte le epoche nelle quali egli esiste, vale a dire si costruisce un fantasma tutti lavorano continuamente per trovare ciò su cui si deve essere d'accordo, perché appartiene all'essenza dell'uomo. Così, si è imparato che innumerevoli cose non erano essenziali, come si credette per lungo tempo, e che quando si stabilisce l'essenziale non si è dimostrato nulla quanto alla realtà, se non che l'esistenza dell'uomo fino a ora è dipesa dalla fede in questa "realtà" (come corpo, durata della sostanza, e così via).
La scienza dunque non fa altro che prolungare il processo che ha costituito l essenza della specie, quello, cioè, di rendere endemica la fede in certe cose, e di espellere e far morire chi non ci crede. La raggiunta analogia della sensazione (per lo spazio, il sentimento del tempo oppure il senso del grande e del piccolo) è diventata una condizione di esistenza della specie, ma non ha nulla a che fare con la verità.
Il "pazzo", l'idiosincrasia non dimostrano la non verità di una rappresentazione, bensì la sua anormalità; con essa non è possibile vivere, per una massa. É l'istinto della massa che domina anche nella conoscenza. essa vuole conoscere sempre meglio le condizioni della sua esistenza, per vivere sempre più a lungo. L'uniformità della sensazione, un tempo cercata mediante la società e la religione viene ora cercata mediante la scienza: si fissa il gusto normale in tutte le cose; la conoscenza, fondandosi sulla fede in ciò che persiste, è al servizio delle forme più rozze di persistenza (massa, popolo, umanità) e vuole espellere e uccidere le forme più raffinate il gusto idiosincratico, essa lavora contro l'individualizzazione, il gusto, che è condizione di vita per uno solo.
La specie è l'errore più grossolano, l'individuo quello più raffinato, egli viene più tardi. Egli lotta per la sua esistenza, per il suo nuovo gusto, per la sua posizione relativamente unica rispetto a tutte le cose, la ritiene migliore del gusto generale e disprezza quest'ultimo. Vuol dominare. Ma, a questo punto, scopre di essere egli stesso qualcosa di mutevole e di avere un gusto alterno, con la sua raffinatezza giunge a scoprire il mistero che non vi è individuo che nell'attimo più inafferrabile egli è qualcosa di diverso da ciò che è in quello seguente, e che le sue condizioni di esistenza sono quelle di un numero enorme di individui: infinitamente piccolo è la realtà e verità superiore, un'immagine subitanea del flusso eterno. Così impara come ogni conoscenza fruitiva si fondi sull'errore rozzo della specie, sugli errori raffinati dell'individuo e sull'errore, più raffinato di tutti, dell'attimo creativo.

In particolare colpisce l'affermazione: "Il pazzo, l'idiosincrasia non dimostrano la non verità di una rappresentazione, bensì la sua anormalità; con essa non è possibile vivere per una massa".

Rappresentante dell'angusto mito positivistico, del petit faitalisme - come diceva Nietzsche con un gioco di parole - troviamo in Italia Cesare Lombroso che certo non si caratterizza per "l'errore più raffinato di tutti". A questo proposito ho chiesto a due miei amici di poter ripubblicare nella terza parte di questo libro un loro intervento del '77, quando si assisteva ad un tentativo diffuso di recupero di Lombroso, in nome delle "tecniche progressive" e di una crescente critica "all'ideale" politico. Loro hanno accettato volentieri perché consapevoli della necessità e della inattualità di lottare su questo piano. Hanno modificato ed ampliato in alcuni punti il loro testo (comparso su (quaderni piacentini n. 62-63, aprile 1977) che ha un carattere di sintesi storica ed una impostazione che condivido pienamente.